Che succede agli indios? I diritti dei popoli indigeni

Oggi ragazzi parliamo di un tema molto scottante all’interno del mondo della conservazione ambientale. Parliamo di diritti dei popoli indigeni.

Se sei interessato alla tutela della natura e degli animali, mettiti comodo e guarda tutto il video:

https://www.youtube.com/watch?v=xmYoZTZ55nI

Queste immagini arrivano dall’Africa, da Kenya e Tanzania, riguardano i Masai, e sono di attualità, ma i scontri tra governi e popolazioni indigene accadono praticamente in tutti i continenti.

Le 2 strategie di conservazione

Nel mondo della conservazione ambientale esistono due grandi correnti di pensiero, 2 fazioni che hanno una visione molto diversa e distante tra loro.

La prima visione, quella dominante, prevede l’eliminazione di tutte le attività umane all’interno delle aree protette.

E per tutte le attività umane, intendiamo tutte.

Non importa se all’interno di una determinata area vivono da millenni gruppi di indigeni, non importa se queste persone non hanno nessun posto dove andare, secondo la filosofia della conservazione a tutti i costi, le aree protette devono essere sotto controllo governativo, devono essere gestite anche militarmente laddove necessario, e le attività umane autorizzate preventivamente.

Secondo questa idea, un masai che vive all’intero di un’area di conservazione deve andarsene. Il regolamento dell’area non prevede insediamenti umani all’interno dei confini di un parco.

La seconda visione, che si contrappone totalmente a questo approccio assolutistico, prevede il coinvolgimento delle popolazioni tradizionali nella tutela degli ecosistemi.

Secondo questo approccio, le popolazioni indigene che vivono da millenni in determinate aree hanno diritti fondamentali di utilizzo delle risorse naturali. Diritti che vanno difesi contro la nuova politica conservazionistica che non prevede attività umane di nessun genere.

Ad un occhio poco esperto, il primo approccio potrebbe sembrare il migliore per la conservazione, perché dovremmo difendere il diritto all’allevamento o alla caccia di alcuni, all’interno di aree chiave importanti per la difesa di specie selvatiche in estinzione?

Sappiamo che l’essere umano è il solo responsabile della crisi ecologica in atto, milioni di foreste distrutte per sempre, fiumi e laghi inquinati, mari un tempo pescosi ormai svuotati, specie simbolo ridotte a pochi esemplari, l’uomo è la sola creatura capace di inquinare il proprio habitat.

Ma ovviamente non tutti gli umani sono uguali.

I diritti dei popoli indigeni

Paragonare i danni ambientali causati dalla società moderna industrializzata, con i potenziali danni causati da tribù di cacciatori primitivi, è sbagliato, strumentale e privo di logica.

Nonostante questo non piaccia ad alcuni governi in affari con le multinazionali, per migliaia di anni, le comunità indigene sono state custodi dell’ambiente, proteggendo le loro terre, rispettando la fauna selvatica e utilizzando le conoscenze tradizionali tramandate di generazione in generazione.

Se non consideriamo gli enormi spazi dell’Antardide, quasi il 50% della superficie terrestre mondiale è gestito da popolazioni indigene e comunità locali, di questo circa il 40% sono territori sotto tutela e quindi ecologicamente sani.

E sebbene i popoli indigeni rappresentino solo il 6% circa della popolazione mondiale, proteggono l’80% della biodiversità rimasta nel mondo.

Se ci affidiamo ai dati scientifici puri, è palese come i popoli indigeni sono i migliori guardiani della biodiversità e ogni tentativo strumentale di additarli come responsabili di danni ambientali gravi risulta forzato.

Così come per le specie animali in via d’estinzione, le popolazioni indigene rappresentano un valore aggiunto da tutelare e preservare. Uno studio del 2016 seguendo otto gruppi indigeni in aree isolate del Sud America, ha scoperto che un solo gruppo stava crescendo numericamente, mentre i restanti erano piccoli e in diminuzione.

Proteggere i popoli locali, dare loro autonomia e gestione dei territori significa non solo proteggere gli ecosistemi naturali, ma anche preservare conoscenze ancestrali che legano l’essere umano con madre natura.

La presenza di veri ecologisti come i popoli locali, ovviamente danno fastidio a governi e multinazionali che vedono la biodiversità rimasta come una risorsa economica da sfruttare.

Resort esclusivi, riserve di caccia private, con la scusa della conservazione ambientale i gruppi economici cercano solamente un’altra fonte di denaro.

La linea che divide una giusta politica di conservazione, con abusi dei diritti fondamentali degli esseri umani, è sottile.

Un esempio degli scontri in atto ci arriva dal Camerun dove vaste aree sono state trasformate in parchi nazionali. Tuttavia, queste stesse terre sono la casa ancestrale dei Pigmei, una popolazione che vive da secoli in armonia con la foresta.

La materia è complessa, i fattori in gioco sono numerosi e pertanto non esistono facili soluzioni.

Da una parte le esigenze della società moderna di voler istituire parchi nazionali che possono rappresentare anche nuove fonti economiche con la presenza di turisti, e dall’altra popolazioni indigene che vivono in maniera sostenibile da millenni.

Chi ha ragione?

Quale strategia di conservazione funziona meglio?

Secondo il mio modesto parere, la risposta come sempre sta nel mezzo.

Che succede con i Masai?

diritti dei popoli indigeniQuello che sta succedendo in Kenya e Tanzania è l’esempio di come non vanno gestite le cose: qui i governi vogliono scacciare le popolazioni di Masai per creare una riserva di caccia e safari affidata a operatori internazionali.

Nel nome della conservazione della natura si vuole scacciare via le persone che quelle terre hanno protetto per generazioni. Se vogliamo veramente proteggere natura e animali, quelle persone che per secoli hanno protetto la terra dall’avidità moderna, vanno integrate all’interno del progetto.

E’ ovviamente giusto istituire parchi nazionali laddove per motivi biologici ed ecologi serve proteggere i territori, ma allo stesso tempo è necessario proteggere le popolazioni locali che per millenni hanno vissuto in quelle zone, essendo loro stesse uno dei motivi per cui quelle aree sono ancora ricche di biodiversità.

I Masai in Tanzania, così come i pigmei in Camerun o gli Indios in Amazzonia, sono fondamentali per la conservazione della natura.

Spesso sono loro i primi guardiani che vigilano contro i veri bracconieri che arrivano armati di mitra ed elicotteri e vanno a finanziare il bracconaggio illegale, spesso sono loro i veri guardiani che difendono la terra dall’uomo moderno.

Ogni progetto di conservazione che non prevede l’impiego delle popolazioni locali è destinato a fallire. Queste persone devono essere incluse nella conservazione degli habitat naturali che sono anche la loro casa.

I popoli locali possono infatti svolgere un ruolo fondamentale, alcuni possono infatti integrare le loro attività tradizionali come agricoltura e allevamento con lavori nell’ecoturismo, diventare guide ambientali o gestori di strutture turistiche destinate all’ecoturismo.

Se vogliamo preservare la biodiversità del pianeta, l’uomo moderno deve riconoscere l’enorme conoscenza dei popoli indigeni e imparare da coloro che capiscono la relazione simbiotica tra gli esseri umani e la terra.

Non possiamo proteggere il pianeta senza la conoscenza tradizionale e le pratiche agricole sostenibili dei popoli indigeni che vivono in queste aree.

Scacciare i veri protettori della natura in nome di un assolutismo della conservazione secondo me è un errore grave che spesso nasconde ricchi interessi personali.

Un ulteriore ed eclatante esempio ci arriva dal Brasile, dove le grandi multinazionali scacciano gli indios in cerca di nuove terre per allevamenti ed estrazioni minerarie.

I locali qui hanno dovuto combattere sia sul campo sia in tribunale contro attività distruttive come le trivellazioni petrolifere, la deforestazione e l’agricoltura e allevamento su scala industriale.

E tu, che ne pensi?

Preferisci parchi nazionali privi di esseri umani, gestiti da istituzioni internazionali, oppure preferisci progetti dove le popolazioni indigene vengono integrate nel progetto di conservazione?

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