Quando si parla di alimentazione sostenibile, inizia immediatamente un duro dibattito tra carnivori e vegani.
Una lotta tra due schieramenti che non troveranno mai un punto di incontro nel breve periodo, e ovviamente a rimetterci è sempre l’ambiente. La giusta soluzione quando si scontrano filosofie di vita opposte risiede nel mezzo.
Se è impossibile trasformare l’intera popolazione mondiale in vegana, si deve iniziare a parlare di una netta riduzione del consumo di carne.
Che piaccia o no, il consumo di carne nella nostra dieta ha origini arcaiche.
I nostri primitivi antenati erano infatti abili cacciatori e con l’evoluzione ci fu un lento passaggio ai primi rudimentali allevamenti, fino ad arrivare all’attuale zootecnia.
Con lo sviluppo economico la carne è diventata la principale fonte proteica, ma soprattutto un preciso indicatore dei cambiamenti alimentari, dello sviluppo e della ricchezza di un Paese.
Infatti, seppure oggi un terzo delle proteine consumate dalla popolazione mondiale è di origine animale, con un consumo che supera i 300 milioni di tonnellate all’anno, c’è da dire che la situazione è molto eterogenea nelle varie parti del mondo.
I Paesi sviluppati consumano più del doppio di kg pro-capite annui rispetto ai Paesi in via di sviluppo.
E se il primato spetta agli Stati Uniti che ne consumano circa 120 kg l’anno, noi Italiani, secondo analisi effettuate dalla Fao e Ismea, consumiamo mediamente 237 grammi al giorno, ovvero 38 kg all’anno tra carni rosse e bianche.
Consumo non eccessivamente elevato e sicuramente sotto la media, ma che visto nella complessità mondiale deve farci riflettere. Sono infatti tante le criticità collegate alla produzione e al consumo di carne.
Rischi per la salute
Nel 2015 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ha inserito le carni rosse come alimento probabilmente cancerogeno per l’essere umano e le carni processate nella lista degli alimenti cancerogeni certi per l’uomo.
Per le prime si parla ancora di probabilità perché le prove fornite dagli studi non forniscono ancora evidenze certe, mentre che le carni processate siano certamente cancerogene per l’uomo è comprovato da circa 800 studi epidemiologici.
Studi che hanno valutato l’insorgenza di tumori in relazione al consumo di carni, rosse e processate, su persone appartenenti a diverse etnie e dalle abitudini alimentari più varie. I risultati hanno portato anche alla valutazione di dosi limite, pari a 100 g al giorno per le carni rosse e 50 g per quelle processate. Già solo consumare tutti i giorni questo quantitativo di carni può portare ad un incremento del 18 % del rischio di insorgenza di tumori al colon-retto, al pancreas e alla prostata.
Oltre all’insorgenza dei tumori il consumo eccessivo di carne contribuisce per il 13% all’obesità. Studi scientifici hanno dimostrato come non siano eccessivamente responsabili i grassi ma le stesse proteine, che creano un surplus di energie di lenta metabolizzazione per il nostro corpo, che alla fine immagazzina come grasso.
Tutto ciò ovviamente favorisce lo sviluppo di malattie croniche non trasmissibili come le malattie cardiovascolari.
Danni all’efficienza del sistema immunitario sono invece causati da una sempre più diffusa immuno-resistenza, che anche in questo caso vede nell’elevato consumo di carne la causa primaria. È sdoganato infatti l’uso di antibiotici negli allevamenti intensivi sia per contenere le infezioni negli allevamenti, sia per incrementare la crescita dell’animale. Un uso che assorbe circa il 73% di tutta la produzione antibiotica a livello mondiale e che è decisamente poco controllato in molti paesi. Il prezzo però lo paghiamo tutti, proprio perché la resistenza è molto rapida nel passare da un Paese all’altro e secondo l’ultimo rapporto dell’Oms, ogni anno, muoiono per infezioni resistenti agli antibiotici circa 700 mila persone.
Le fabbriche di allevamento intensivo
Tra difficoltà di deambulazione, fecondazioni sistematiche e stress continuo, le condizioni di sfruttamento degli animali negli allevamenti intensivi sono drammatiche. La maggior parte delle aziende intensive sono vere e proprie fabbriche della morte.
Mucche fecondate artificialmente ogni anno, costrette al parto e alla produzione di quasi 30 litri di latte al giorno, che non riuscendo nemmeno più a reggersi sulle proprie zampe, vengono lasciate a terra e trasportate con un muletto. Polli ingozzati di mangimi e antibiotici per far raggiungere, in poco più di un mese, il peso adatto alla macellazione.
Macellazione che diventa quasi una salvezza per gli animali che per il peso eccessivo non riescono a reggersi sugli arti e sono soggetti a svariate patologie.
Scrofe che rinchiuse in gabbie, dalle dimensioni limitatissime, per tutta la loro vita, compreso nel periodo di gestazione e parto, condividono la cella con i cuccioli, con cui non hanno possibilità di interagire e che, non di rado, vengono purtroppo schiacciati.
Approfondisci: è possibile superare gli allevamenti intensivi?
Perdita di ecosistemi e biodiversità
Per nutrire gli animali negli allevamenti intensivi servono ovviamente grosse quantità di mangimi. Mangimi che devono essere coltivati.
Coltivazioni che hanno bisogno di aree sempre più grandi.
Aree che si ricavano deforestando e disboscando. Si è stimato infatti che ad oggi l’80 % della deforestazione mondiale è causata proprio dall’agricoltura industriale, che per la produzione di soia e cereali è colpevole della perdita di biodiversità ed ecosistemi.
Le conseguenze della deforestazione sono molteplici ed una più drammatica dell’altra. Prima causa è la perdita di habitat naturali essenziali alla sopravvivenza di specie vegetali e animali, che nelle caratteristiche particolari di quel determinano ambiente hanno modo di vivere, svilupparsi e riprodursi.
L’agricoltura intensiva va, inoltre, ad impoverire il suolo. Il suolo è danneggiamento da macchinari pesanti utilizzati per il taglio e il trasporto di legname, con i quali, oltre a solchi profondi, si creano compattamenti del terreno che riducono la porosità e l’ossigenazione interna.
L’assenza di vegetazione poi non permette l’effetto barriera del terreno, esponendolo agli agenti atmosferici con conseguenti fenomeni di erosione.
Di grande impatto è anche l’utilizzo di pesticidi chimici e fertilizzanti che rilasciano nel terreno sostanze nocive che peggiorano la qualità chimico-fisica del suolo.
Peggioramento che si ha anche sulle molteplici comunità e organismi che vivono e si riproducono nella terra. Questi sono sottoposti a stress meccanici e biologici che ne arrestano la riproduzione, e molte specie, come i lombrichi, importanti ingegneri del suolo, impiegano anche quattro anni per ritornare alla normalità. Lo stesso per funghi e batteri il cui numero si abbatte drasticamente.
Inquinamento
L’impatto che l’uomo causa al suolo a causa dell’agricoltura intensiva ha effetti importanti anche sull’atmosfera. Il suolo, infatti, lo si può vedere come un serbatoio di gas serra, che con la compattazione e la riduzione della porosità, diventa luogo fertile per la proliferazione proprio delle colonie batteriche che vivono senza ossigeno.
Batteri che iniziano a cibarsi di metalli e a rilasciare in atmosfera solfati e solfuri di varia natura con un conseguente aumento di gas serra, come il protossido di azoto e il metano, che anche se in piccole quantità incidono notevolmente sul riscaldamento globale.
Emissioni di gas serra che, in realtà, provengono in buona parte da tutti i processi coinvolti nell’allevamento intensivo, in particolar modo dalle flatulenze e deiezioni degli animali allevati, e che la Fao ha stimato essere intorno al 18% delle emissioni globali.
Altro impatto inquinante è quello delle risorse idriche del nostro pianeta, che tramite deiezioni animali, antibiotici, fertilizzanti ed altre sostanze chimiche finiscono per avvelenare irrimediabilmente tanto le acque superficiali che le falde acquifere.
Insomma, ridurre in maniera sostanziale il consumo di carne avrebbe effetti positivi su tanti aspetti della nostra vita e su quella del nostro pianeta, permettendoci una salute più sana, una coscienza meno sporca e una terra sicuramente più riconoscente.
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